Marmi introduzione

Introduzione e cenni storiografici

di Luigi Mastromatteo, adattamento da Francesco Crocenzi

I marmi sono definiti dal punto divista petrografico come rocce metamorfiche originatesi per trasformazioni di calcari e dolomie. Tuttavia dal punto di vista commerciale sono spesso chiamati marmi tutte le rocce utilizzate a fini architettonici e decorativi, comprendendo quindi anche rocce sedimentarie e fossilifere come le lumachelle o rocce magmatiche come i graniti. In questa ottica ampliata, i marmi antichi sono quindi specifiche tipologie di pietre impiegate dalle antiche civiltà che si affacciavano sul Mediterraneo, le cui cave sono oggi in gran parte esaurite. La loro importanza è data dalla loro rarità, dalla loro bellezza e dall’essere testimonianza fittile del livello tecnologico dei nostri antenati.

Secondo le fonti attuali, gli Egizi furono i primi nel bacino del Mediterraneo ad estrarre materiali di pregio a partire dal III millennio a.C., con la seconda dinastia. Per tremila anni la civiltà egizia utilizzò questi materiali per creare statue, obelischi, sarcofagi, vasi ed elementi decorativi che ancora possono essere ammirati sul posto o nei musei. Anche le prime estrazioni di marmi in Asia minore sono antichissime e risalgono agli Ittiti e agli Assiri, sebbene il vero e proprio sfruttamento delle cave sia iniziato con l’emergere delle città greche situate in Anatolia, come Mileto ed Efeso. Le prime cave di marmo nella Grecia continentale e insulare appaiono qualche secolo dopo quelle egizie, gestite soprattutto dalle singole città-stato greche, come nel caso di Atene e Corinto. Le antiche cave erano chiamate metalla e potevano essere sfruttate sia a cielo aperto in maniera orizzontale o a gradoni, sia nel sottosuolo alla luce delle lanterne, quando la formazione del deposito non permetteva lo scavo a cielo aperto. In realtà, molto spesso venivano usate entrambe le modalità, come nelle cave di giallo antico a Chemtou, odierna Algeria.

La lunga storia d’amore tra gli antichi romani e il marmo ebbe inizio sotto la Repubblica. Infatti, l’espansione territoriale nel Mediterraneo di quel periodo introdusse nel mondo romano tipologie di marmi spesso ben più colorate del bianco e del grigio a cui erano avvezzi i cittadini dell’Urbe. L’importazione di pietre straniere rispondeva ad una precisa ideologia: Roma si riteneva l’erede culturale della Grecia conquistata e per mostrarlo ne imitava i modi e l’architettura, impiegando gli stessi marmi utilizzati dai greci per erigere i templi e scolpire le statue della classicità. La stessa statuaria romana richiamava la tradizione greca e ritraeva spesso figure mitologiche. Nel 31 a.C. anche l’Egitto diventò provincia romana sotto Augusto e le cave già attive sul territorio raggiunsero il loro periodo di massimo sfruttamento, mentre venivano trovati nuovi luoghi di estrazione per soddisfare la grande richiesta del mercato imperiale, come Mons Claudanius e Mons Porphyrites nel deserto orientale. Da queste cave si estraevano rispettivamente il granito del Foro, utilizzato soprattutto per grandi colonne, e il porfido imperiale. La basanite in particolare, già usata dagli antichi egizi per le statue di faraoni e divinità, divenne il materiale d’elezione per i ritratti della famiglia Giulio Claudia, prima di essere sostituita dal porfido in età imperiale.

Con il passare degli anni, il materiale smise di essere testimonianza dell’ammirazione romana verso i greci e assunse una funzione di celebrazione del potere: più la conquista di un territorio era faticosa, più a lungo ne venivano sfruttati i marmi alla stregua di trofei. Ne sono esempi il marmo giallo, estratto nei pressi di Cartagine, o le cave in Egitto, proprietà diretta dell’imperatore. Le pietre colorate venivano impiegate nella costruzione di statue colossali di divinità e per le architetture gigantesche dei Fori e delle Basiliche, poiché i marmi erano diventati un simbolo del mondo romano e servivano a celebrare il potere imperiale. Nel Foro di Augusto troviamo le pavimentazioni in marmi colorati in quattro ambienti, più alcuni fusti policromi e frammenti architettonici che hanno delle tracce dei procedimenti della lavorazione e della messa in opera dei blocchi. Anche nel Foro di Traiano, dall’emiciclo e dal portico orientale alla Basilica Ulpia e alla Biblioteca Occidentale sono utilizzati diversi marmi colorati, visibili nella pavimentazione e nei fusti di colonne lisce e scanalate. Le tracce di lavorazione e le iscrizioni delle cave su alcuni blocchi hanno permesso di ricostruire le fasi attraverso cui questi furono estratti, lavorati e messi in opera fino al riutilizzo dopo la distruzione degli edifici antichi. Ad esempio, quasi tutte le raffigurazioni di Daci nell’arte Romana possono essere ricondotte alla decorazione del Foro di Traiano (102 – 112 d.C.), e degli edifici circostanti. È probabile che statue di guerrieri Daci sconfitti, realizzate in pavonazzetto e marmo bianco lunense, fossero disposte rispettivamente sopra i portici del foro e ai lati della basilica; il ritrovamento di statue in porfido, inoltre, ha posto le basi per ipotizzare l’esistenza di raffigurazioni in porfido rosso e serpentino. Il confronto dei materiali nei due complessi monumentali evidenzia l’evoluzione nella scelta delle tipologie di marmi utilizzati e nei diversi modi di lavorazione. Per il lusso degli arredi di marmo, anche il palazzo di Augusto sul Palatino diventò un vero e proprio modello da imitare.

Già verso la fine dell’età repubblicana nel I secolo a.C. i marmi colorati vennero introdotti anche nelle domus romane e la loro esibizione aveva lo scopo di mettere in risalto il prestigio di ciascuna famiglia. La decorazione architettonica degli interni degli edifici privati, le cui colonne e trabeazioni in marmi colorati erano imitazioni di quelle degli edifici pubblici, si sviluppò in modo complementare agli elementi di arredo come le opere scultoree, status symbol della ricchezza della classe dirigente e aristocratica della città. Con le conquiste territoriali augustee arrivarono nel centro dell’impero enormi ricchezze e beni di lusso, compresi marmi ornamentali da ogni provincia. Di conseguenza, le statue di marmo colorato non rimasero patrimonio delle case patrizie, ma si diffusero rapidamente come arredo degli edifici pubblici e privati, grazie alla ricchezza delle famiglie nobili e alla straordinaria abilità delle maestranze locali. Ne è un esempio la casa di Marco Emilio Scauro, edile, la quale viene abbellita con colonne di africano (chiamato all’epoca marmum luculleum), proveniente dalle cave di Teos in Asia Minore.

La grandissima richiesta di marmo da parte dei romani portò a grandi ampliamenti delle cave e alla ricerca di nuovi tipi di marmi, fatto fortemente criticato da Plinio il Vecchio, che lo reputava una “profanazione della natura”; a riprova dell’estensione del fenomeno, fu limitata l’estrazione di pietre e minerali sul suolo italiano per non “manomettere l’integrità del suolo”. Molte fonti storiche e iconografiche descrivono le varie fasi della lavorazione dei marmi, dall’estrazione dalla parete rocciosa con cunei e picconi, allo sgrossamento in cava con sabbie e scalpelli, al trasporto su grandi slitte verso i luoghi di imbarco, dove venivano caricati sulle naves lapidariae. Il porto di Ostia era il più grande punto di raccolta, lavorazione e distribuzione del Mediterraneo per i marmi provenienti dalle provincie, che da lì ripartivano per raggiungere tutte le città dell’Impero.

Il declino e la caduta dell’Impero Romano non impedì la sopravvivenza dei marmi colorati, troppo pesanti per essere portati via dagli invasori e inutili per la costruzione di case, a differenza dei marmi bianchi, spesso frantumati per fare calce. Già sotto Costantino (III sec. d.C.) i grandi templi della Roma pagana erano in rovina, e i loro marmi venivano reimpiegati per le tessere dei mosaici e le colonne delle prime basiliche. L’importazione e l’utilizzo dei marmi colorati continuò nell’impero bizantino ancora per qualche tempo, ma nel V sec. d.C. molte cave erano già state abbandonate e la loro posizione andò perduta con i testi storici che ne parlavano.

In assenza di nuove estrazioni dalle antiche cave, dalla metà del Cinquecento il recupero dei marmi antichi e il loro riutilizzo nelle chiese e nei palazzi papali diventò pratica diffusa ad opera di una nuova figura professionale: quella dello scarpellino romano. Il saccheggio dei marmi dalle rovine dei fori e dei palazzi per la costruzione e la decorazione della Roma barocca continuò fino all’annessione di Roma al Regno d’Italia, quando la disponibilità di nuovi marmi italiani facilmente trasportabili non rese più necessario il riciclaggio del materiale antico. Nel frattempo, la bellezza, la varietà dei colori e la rarità dei marmi antichi non avevano lasciato indifferenti i collezionisti di cose preziose, che entrarono in competizione per accaparrarsi esemplari di pietre appartenuti alle vestigia storiche del passato. Essi accumularono grandi collezioni di frammenti e mattonelle usati sia per gli intarsi in pavimenti e mobili dell’epoca, sia come oggetti decorativi degli ambienti lussuosi di ville e palazzi. I marmi antichi sono arrivati fino a noi anche sotto questa veste, come testimonia la collezione a lungo conservata nell’Istituto Tecnico “Leonardo da Vinci” di Roma.